Riccardo Franci

r.franci@museostibbert.it

Il dramma di un’epoca raccontato da una singolare tsuba della collezione giapponese del Museo Stibbert

DOI: 10.7431/RIV21112020

Con il termine tsuba in Giappone si indica l’elsa della spada, una parte essenziale dell’arma destinata alla protezione della mano e all’equilibratura della lama. I primi esemplari, databili al V secolo1, non erano altro che dei semplici dischi d’acciaio, ma ben presto gli artigiani2 iniziarono ad arricchirli con materiali e temi decorativi indici dello stato sociale o della funzione pubblica rivestita dal committente. Proprio nel V secolo, periodo in cui si concretizzò l’unificazione del paese da parte dell’imperatore Yūryaku, l’uso sulle spade dell’agemina d’oro piuttosto che d’argento indicava l’appartenenza a un determinato rango, ed il suo utilizzo era regolamentato per legge3. Anche lo sporadico impiego del bronzo dorato al posto dell’acciaio nella costruzione di tsuba e fornimenti ci fa capire come già all’epoca le armi, oltre al ruolo di strumento per la guerra, assumessero un valore simbolico slegato dalla mera funzionalità4. Le semplici decorazioni a linee e motivi geometrici lasciarono gradualmente il passo a motivi floreali e naturalistici di chiara influenza cinese quando, specialmente nel periodo Nara (712 – 794), l’élite sociale nipponica prese a modello i caratteri dell’arte proveniente dal continente.

La tsuba è, fra gli elementi che costituiscono la spada giapponese, quello che offre il maggior spazio su cui articolare scene decorative, nonostante ciò fu solo a partire dal XV secolo che alcuni artisti iniziarono a realizzarne esemplari con decorazioni più strutturate abbandonando i più arcaici schemi ripetitivi5. Le superfici iniziarono ad essere lavorate con le tecniche più svariate, oltre all’agemina si iniziarono ad usare anche incisione, traforo e trattamenti chimici per dare vita ad un campionario iconografico sterminato.

La fine delle grandi guerre e l’insediamento dello shogunato Tokugawa nel 1603 decretò l’inizio di una nuova fase in cui i guerrieri vennero inglobati nella macchina amministrativa dello stato con il conseguente appannarsi del loro spirito bellico. In questa fase andò delineandosi uno stile decorativo ufficiale che vide nella famiglia di artisti Gotō l’emblema di quelli che venivano definiti iebori, cioè “incisori della casata [Tokugawa]”. Anche armi e armature risentirono di questo nuovo corso che lentamente portò ad un periodo di decadenza superato soltanto a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, quando le montature delle spade e le tsuba iniziarono ad essere profondamente reinterpretate, favorendo l’uso di materiali, come le leghe di rame e i metalli preziosi, del tutto inadatti ad un uso in guerra. L’impulso più importante alla nuova vita dei fornimenti da spada fu dato però non tanto dai samurai, quanto dai mercanti, unici oltre ai guerrieri ad essere autorizzati a portare un’arma, che divenuti sempre più ricchi grazie a pace e stabilità, iniziarono a sfoggiare la loro opulenza indossando spade con montature lussuose e sgargianti. In breve tempo la passione per questi piccoli gioielli di oreficeria portò alla nascita di un vero e proprio collezionismo che favorì l’attività di innumerevoli artisti chiamati machibori, “incisori di città”, identificati da uno stile gioioso e variopinto, in netto contrasto coi più austeri e tradizionali iebori.

Nel 1638 con l’editto di chiusura del paese agli stranieri, vennero banditi anche qualsiasi forma d’arte e cultura occidentali, che per riaffacciarsi in Giappone dovettero attendere il 1720 quando il bando fu modificato ammettendo l’importazione di libri6. Grazie a questo ammorbidimento volumi illustrati e stampe occidentali fornirono ai giapponesi fugaci scorci sulle evoluzioni artistiche straniere e contribuirono fra l’altro all’introduzione di un maggior realismo in pittura. Shiba Kōkan e Aōdō Denzen, due artisti della fine del XVIII secolo, furono coloro che introdussero nell’arte giapponese la resa degli spazi panoramici alla occidentale che influenzò successivamente molti altri artisti fra i quali Katsushika Hokusai e Andō Hiroshige7. Queste innovazioni, mediate dalla pittura, non tardarono a comparire sulle altre forme d’arte, xilografia naturalmente, ma anche decorazione della lacca e dei metalli. Gli artefici che in questo periodo si occupavano di tsuba infatti non di rado collaboravano con pittori e altri artisti che, fornendo i disegni da riportare sul metallo, contribuirono ad aggiornare il repertorio grafico e stilistico di un’arte naturalmente portata alla conservazione8. Molte delle tsuba realizzate fra Sette e Ottocento non furono mai montate su di una spada, ma furono vendute e apprezzate come oggetto d’arte a sé stante.

Le tsuba del XIX secolo, e in particolare quelle prodotte attorno alla metà del secolo, presentano composizioni del disegno più audaci, un’attenzione particolare al dettaglio e le figure vengono rappresentate con un pathos molto più marcato. Quando il soggetto è tratto dal mondo vegetale o animale, esso viene affrontato in modo documentaristico ponendo attenzione anche al dettaglio più insignificante. Questo periodo di fulgido splendore fu il preludio alla fine di quest’arte, l’editto del 1876 (Haitōrei), col quale fu bandito il porto di armi in pubblico, sancì la fine di un’arte plurisecolare. Tutti coloro che si occupavano di armi, armature e loro parti si trovarono a doversi reinventare. Gli artisti di tsuba e fornimenti di spada si riunirono in vere e proprie aziende riconvertendosi alla produzione di oggetti decorativi9. Le opere realizzate da questi maestri del metallo riscossero un successo strepitoso presso le grandi esposizioni internazionali che a partire dagli anni Sessanta avevano iniziato a presentare al mondo l’artigianato artistico del Sol Levante.

La tsuba che prendiamo in esame (Fig. 1) appartiene alla collezione del Museo Stibbert10 ed è firmata da Seiju (誠壽) (Fig. 2), artista di cui purtroppo non abbiamo notizie certe e che probabilmente fa parte di quella folta schiera di artisti indipendenti che, dopo aver compiuto il proprio apprendistato presso un laboratorio illustre, intraprese un percorso lavorativo slegato dalla scuola di origine11.

L’opera è databile al terzo quarto del XIX secolo per una serie di elementi che vedremo a breve. Essa ha un profilo di forma detta mokkō (quadrilobata) e presenta il foro centrale per il codolo della lama affiancato da uno più piccolo per far passare l’impugnatura del kogatana (coltellino). La base della tsuba è in shibuichi, una lega di rame promossa dagli artisti machibori tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo12. Il nome significa letteralmente “di quattro parti una”, riferendosi alla sua composizione che prevede tre parti di rame e una d’argento13. Una patina artificiale conferisce allo shibuichi, che naturalmente ha un colore molto vicino al rame, un aspetto argenteo olivastro.

Sul dritto della tsuba è raffigurata una scena marittima con una nave ageminata a rilievo (takaniku zōgan) in shakudō14 e argento, mentre il sartiame è in oro così come alcuni dettagli delle paratie. Di fronte alla nave è inciso a leggero rilievo un mare in tempesta con schizzi d’acqua resi mediante puntini ageminati in oro e argento (ten zōgan). In cielo sono raffigurati, sempre ageminati in oro a rilievo, dei fulmini su di un letto di nuvole appena accennate a basso rilievo.

Guardando questa scena non può non venire in mente il celeberrimo capolavoro di Katsushika Hokusai, La grande onda nei pressi di Kanagawa, xilografia pubblicata fra il 1831 e 1833 nella serie Le 36 vedute del monte Fuji (Fig. 3). Ci sono però delle differenze evidenti. Nella stampa di Hokusai l’enorme onda è all’apice del suo sviluppo ed è la protagonista indiscussa della scena. Le sottili barche dei pescatori si muovono seguendo i margini dei flutti, mentre i loro equipaggi sono rappresentati tutti in perfetto ordine, prostrati quasi in un ossequioso inchino a questa potenza della natura fattasi essa stessa manifestazione del divino. Su uno sfondo piuttosto neutro un imperturbabile monte Fuji fa da spettatore a questa solenne scena. Sulla nostra tsuba la situazione è molto diversa. Protagonisti sono sia la nave da un lato che l’onda dall’altro, in una sorta di confronto. La mareggiata non è però ancora al suo apice, nonostante le terribili dimensioni si capisce che andrà ancora ad aumentare in una rincorsa distruttiva rivolta verso la nave. Quest’ultima (Fig. 4), sul lato opposto, tutt’altro che distesa come le barche dei pescatori di Hokusai, è quasi ripiegata su se stessa, come se la potenza dei flutti la stesse già schiacciando. I piccoli marinai raffigurati in coperta e a prua sono l’esatto opposto delle immobili ciurme della xilografia, in questa scena corrono agitati da tutte le parti, nello sforzo di ammainare le vele, due delle quali ancora spiegate ad indicare quanto gli sventurati siano stati colti impreparati dalla tempesta. La punta dell’albero maestro con la sua bandiera al vento è già spezzata e come se non bastasse anche il cielo, spaccato come un vetro dai fulmini, pare abbattersi sulla povera imbarcazione che a questo punto non pare avere scampo. L’inevitabilità del tragico epilogo si palesa girando la tsuba e ammirandone il rovescio. Qui si capisce che l’artefice della tempesta e origine dei fulmini è addirittura una divinità, Raijin il dio del tuono (Fig. 5). Egli è raffigurato in alto, fra le nubi, mediante una leggera incisione a bassorilievo. La figura a mezzo busto sbuca fra le nuvole ed è trattata con un effetto rigato a suggerire una sorta di nebbia che ne rende la figura non perfettamente definita. Dalla sua mano destra scaturisce un fascio di fulmini ageminati in oro che si allargano sulla metà inferiore della tsuba e che, ormai sappiamo, è destinata ad abbattersi sul vascello.

La figura del dio del tuono, disegnata col volto di profilo e in una postura quasi egizia, è del tutto insolita e non riflette i canoni standard dell’iconografia tradizionale. Raijin di norma è raffigurato come un demone dal corpo massiccio, dalla faccia larga, il naso schiacciato, barba e zanne acuminate, come nei celeberrimi paraventi dipinti da Tawaraya Sōtatsu e Ogata Kōrin (Fig. 6)15. In questo caso Seiju ha voluto creare una figura eterea, non ben riconoscibile sfruttando un artificio scultoreo per aggiungere un senso di mistero del tutto inusuale nell’arte dei fornimenti da spada.

Tornando al dritto della tsuba, è necessario sottolineare un aspetto decisivo per poter comprendere il significato di tutta la scena. Sebbene il mare sia un tema ampiamente utilizzato nella decorazione delle tsuba, e anche le navi vengano spesso rappresentate come elemento principale (Fig. 7), in questo caso dobbiamo notare come il veliero in questione non sia la solita giunca monoalbero cinese che ormai da secoli solca i mari metallici raffigurati sulle tsuba, bensì una nave da guerra americana.

Dopo la chiusura del Giappone agli stranieri di cui abbiamo già detto, pochissime navi occidentali si erano arrischiate ad avvicinarsi, anche perché queste venivano nel migliore dei casi riaccompagnate al largo, nel peggiore allontanate a cannonate16. Proprio per l’efficacia dei respingimenti la maggioranza della popolazione non aveva idea di come fossero fatte le navi europee fino a quando nel 1853 il commodoro Matthew C. Perry, della marina americana, si presentò nella baia di Edo con una flotta di quattro navi da guerra, armate di tutto punto, per chiedere ufficialmente la fine dei divieti di approdo. Le kurofune (navi nere)17), misero il governo isolazionista giapponese difronte alla cruda realtà: gli occidentali disponevano ormai di tecnologie e armi impossibili da contrastare. I quattro vascelli impressionarono talmente tanto la popolazione che in breve la loro immagine, e successivamente quella dei loro occupanti, iniziò a circolare su stampe e disegni di ogni genere. Il 1854, con la firma del Trattato di Kanagawa, mise fine alla secolare storia di chiusura del Giappone. La forzatura voluta dagli americani non fu certo ben accolta e in poco tempo il paese fu spaccato in due, da un lato la fazione di coloro che volevano aprire e modernizzare il paese, posizione sostenuta dallo shogun, dall’altro lato la fazione sostenuta dall’imperatore che al grido di “sonnō jōi” (riverire l’imperatore, scacciare i barbari) voleva resistere alle pressioni straniere anche utilizzando le armi se necessario18.

Tornando alla tsuba in esame possiamo quindi affermare che una datazione al terzo quarto del XIX secolo, fra l’arrivo delle navi nere (1853) e l’editto Haitōrei (1876), è molto plausibile, e in particolare è probabile che si possa restringere l’intervallo agli anni Sessanta, culmine della diffusione del sentimento xenofobo. La nave raffigurata19 è inequivocabilmente una “nave nera” (Fig. 8) e Seiju realizza minuziosamente lo scafo in shakudō proprio per rendere questa colorazione, premurandosi di delineare con cura anche la peculiare fascia bianca con le feritoie per l’artiglieria ageminandola in argento. Il fatto che in un suo editto del 1858 l’imperatore Kōmei in persona pregasse gli dei per una punizione divina che si abbattesse sulla prepotenza dei barbari stranieri20, ci fa capire bene quale fosse il clima del periodo, e che Seiju non abbia fatto altro che imprimere nel metallo l’auspicio invocato dall’imperatore. Alla luce di questi elementi viene naturale supporre che il committente di questa tsuba, o perché no Seiju stesso, dovesse essere un simpatizzante della fazione xenofoba imperialista.

La straordinarietà di questa tsuba risiede quindi non solo nel presentare un soggetto totalmente inedito, ma anche nel fornirci l’istantanea di un momento storico nel vivo del suo evolversi. Generalmente tsuba e altri fornimenti di spada presentano un’iconografia legata ad elementi della natura, oggetti della vita quotidiana, divinità e simboli religiosi oppure scene bucoliche e quando sono raffigurati accadimenti bellici questi sono sempre relativi a fatti del passato. Vengono illustrati momenti epici delle battaglie, gesta ammirevoli di personaggi famosi ma gli artisti non utilizzano mai come tematiche per le proprie opere fatti contemporanei. Un artista del passato avrebbe probabilmente interpretato l’auspicio dell’imperatore Kōmei raffigurando una scena tratta dall’epopea delle tentate invasioni mongole del XIII secolo spazzate via dai Venti Divini (kamikaze). Seiju invece, rompendo la continuità dettata dalla tradizione, colloca la scena nel mondo attuale trasformando la sua opera nello specchio di un momento storico senza precedenti, nel quale anche i maestri delle arti più tradizionali comprendono di poter svolgere un ruolo nuovo.

  1. Per una breve storia dei fornimenti da spada si veda M. Ogawa, Sword mountings and fittings, in “Art of the Samurai”, catalogo della mostra a cura di M. Ogawa, New York 2009, pp. 193-203. []
  2. Per quasi mille anni la produzione delle tsuba fu un lavoro accessorio eseguito dagli stessi spadai o dai corazzai. []
  3. Cfr. Franci, Un tesoro nazionale del Giappone, la spada della tomba Inariyama, in OADI, anno VIII n. 15, Palermo 2017, p. 28. []
  4. Ibidem. M. Ogawa, Sword mountings and fittings… 2009, p. 195. []
  5. Solitamente si trattava di figure geometriche o elementi fitomorfi stilizzati ripetuti. Cfr. V. Harris, Bakumatsu Meiji no tsuba-tōso kinkō, in Kottō Rokusho, vol. 34, Tokyo 2007, p. 6. []
  6. In realtà la chiusura non fu totale, il porto di Nagasaki venne lasciato aperto ai mercanti cinesi e nella baia della stessa città un’isoletta artificiale, Deshima, restò accessibile ai soli mercanti olandesi. Pare inutile dire che contatti con mercanti stranieri, soprattutto coreani e cinesi, continuarono in modo clandestino su tutta la costa del mar del Giappone. []
  7. Cfr. Nihon no akebono, a cura di T. Kimura, Oshinomura,1991, p. 142. []
  8. Cfr. V. Harris, Japanese imperial craftsmen, Meiji art from the Khalili Collection, Londra 1994, p. 22. []
  9. Cfr. V. Harris, Japanese imperial craftsmen… 1994, pp. 14-15. []
  10. Inv. 9208. []
  11. Al Metropolitan Museum di New York è conservato un pugnale il cui fodero presenta bocchetta e puntale (koiguchi e kojiri) firmati dallo stesso artista, numero inventario 91.2.13. []
  12. Ibidem V. Harris, Japanese imperial craftsmen… , 1994, p. 22. []
  13. Esistono molte varianti di questa lega nelle quali si cambiano le proporzioni dei metalli per ottenere effetti coloristici differenti. []
  14. Lo shakudō è una lega di rame e oro (fra il 5% e il 10%) peculiare della metallurgia estremo orientale. Una volta patinato con processi chimici assume colorazioni dal violaceo al nero bluastro. []
  15. Le fattezze mostruose del dio Raijin e del suo compagno Fūjin, dio del vento, restano pressoché le stesse tanto in pittura quanto in scultura. Se in pittura i due esempi citati sono emblematici, per quanto riguarda la scultura le statue più celebri delle due divinità sono quelle conservate al tempio Sanjūsangendō di Kyoto, datate al XIII secolo che presentano le fattezze classiche dei due demoni. []
  16. Cfr. E. K. Tipton, Il Giappone moderno, Torino 2011, p. 39. []
  17. Furono chiamate così sia per il colore nero dello scafo sia per il fumo che fuoriusciva dalle ciminiere dei motori a vapore che muovevano due di esse. []
  18. Cfr. D. Keene, Emperor of Japan, Meiji and his world, 1852-1912, New York 2002, p. 18. []
  19. A giudicare dalle proporzioni e dalla velatura a doppio albero dovrebbe trattarsi di un bricco da guerra, agile imbarcazione usata nei secoli XVIII e XIX. []
  20. Cfr. D. Keene, Emperor of Japan… 2007, pp. 8 e 38. []